L’archivio della memoria
(classe 1939 residente nel Mulino di Cinto fino agli anni 69/70)

Con Umberto ci siamo trovati davanti al mulino. Gli è bastato uno sguardo per descrivere con gli occhi della mente e con dovizia di particolari, quella parentesi della sua vita trascorsa qui, con la famiglia Bornancin proprietaria delle terre che lui e la sua famiglia coltivavano a mezzadria. Dal suo racconto seppur breve, emerge l’orgoglio di una persona abituata a fare del suo lavoro e della sua dedizione alla terra, la propria carta d’identità, il biglietto da visita.
“Non si può dimenticare la dura vita del contadino, “lavorar ‘na passuda”, sempre nell’incertezza del tempo anche se le previsioni di Bepo Gobbo da Casier di una volta erano più sicure di quelle odierne. La stalla era lì, dove adesso, dopo la ristrutturazione, c’è l’associazione del Filo d’Oro. Abbiamo avuto fino a “tredese bestie che pena te ghe verzeva ‘l porton le vigniva fora da sole per abeverarse al canal che rivava a qualche metro da la stala”. E quando c’era la montana l’acqua l’abbiamo avuta fin sulla porta della cucina.
Eravamo mezzadri e lavoravamo la terra dei Bornancin in sette posti diversi: qui a fianco della stalla e davanti la latteria c’era la vigna che occupava tutto il prato attuale. Per impiantarla avevamo fatto dei “Pai de cassia” sul Palù, sulla terra dei Bornancin. Ne avevamo tagliati un centinaio, belli dritti e “ciusi”, ma, ci siamo chiesti “Come femo a portarli a casa?” Già portarli fuori dal Palù sarebbe stato un lavoro grande e faticoso, figurarsi a farli arrivare a casa.

“L’è stà me pare che se ga pensà de butarli in aqua e farli trasportar dal canal e cussì gavemo fato”. Li abbiamo seguiti ed accompagnati lungo tutto il percorso dalla riva armati di lunghi pali per dirigerli ed in qualche caso “semo entrai anche in aqua per liberar quei che se gaveva incastrà; poco prima del mulin però, semo riuscii a recuperarli tutti”. Un lavoro da matti, faticoso ma che ci aveva dato la soddisfazione di avere una bella vigna ben sostenuta da quasi cento “pai de cassia”.
Nel 1969 abbiamo lasciato la mezzadria e ci siamo trasferiti in viale Torino dove abitiamo tutt’ora, con l’accordo che i pali della vigna sarebbero stati sempre nostri. Infatti l’accordo con il fattore dei Bornancin era stato chiaro, nell’eventualità che la vigna fosse stata estirpata, lui ci avrebbe chiamato e noi ci saremmo ripresi i pali. “Ma no’ l’è stà cusì, tirada via la vigna meza Cinto se ga portà a casa i nostri pai de cassia, e quando gavemo reclamà al fator, lu ne ga dito: ’dè là che ghe ne xe ancora. Gavemo trovà sol che paeti pa’ i pumidori ma quei de cassia gera sparii tuti grazie al fator che li gavea dai a chi che ga vussù lu”.
Noi abitavamo nella parte a fianco del mulino (oggi gialla) e sotto la struttura che oggi viene usata per ricovero auto, si tenevano galline e altri animali da cortile, di fronte dove c’è il muro avevamo la concimaia. In famiglia eravamo in cinque, Aldo De Bortoli, Argia Daneluzzi, due sorelle Ilaria ed Elia ed Umberto. “Se gaveva sette ettari a mezadria, anche sul Palù di Settimo”. Undici campi dove oggi c’è il campo sportivo, un ettaro vicino le scuole. All’epoca il mulino lavorava giorno e notte fino a tardi, macinava per lo più “biava da polenta” ma anche frumento in misura minore. Giuseppe “Bepi”Marcorin insieme a suo fratello Tullio, hanno fatto tante notti poi è arrivato anche Guido Bei “Cincina” come aiutante. Non c’era più né pila orzo né pila riso, ma solo frumento e granturco da macinare che venivano trasportati fino ai piani superiori dal nastro trasportatore con le palette.
A quei tempi c’erano tanti “ bisati” che venivano catturati nella peschiera fatta da Marcorin, ma “noialtri no la gavemo mai usà”. Qualche notte in autunno quando c’era la “montana”, si saliva in barca e si tirava qualche rete insieme a Bepi e “se faseva qualche bella pescada”.
All’epoca c’era già la cabina elettrica ma c’era anche un generatore di corrente che però non l’ho visto in funzione. I primi anni cinquanta c’era un grosso andirivieni di persone, carri trainati da vacche, da “mussi”, carretti spinti a mano: portavano principalmente “biava” per polenta. Prima di Bepi Marcorin c’erano i Zadro, ma quando siamo arrivati noi loro non c’erano più, chi era andato a Porto chi in Francia.
Latteria e Mulino erano le fabbriche del paese e nello stesso tempo luoghi di ritrovo. “Noialtri se gera anca fortunai perché se gaveva fora de’a porta de casa il mulin par macinar e la latteria pal buro e formaio” In latteria ricordo Toni Zorzi come casaro, poi sostituito da Egidio Simionato restato poi solo con Aldino Marzinotto. Noi si portava il latte e se lo lavorava lì. Tutto sommato tempi non proprio di miseria, comunque frugali, ma molto “meio de quei che se vive oggi”. Come dire che se stava meio co se stava pezo. Il mulino ha smesso di macinare nel 1974, Bepi Marcorin aveva trasferito il mulino nei locali dove ora c’è il negozio della Maria Rosa Milan,continuando a macinare la “biava” per qualche anno ancora ed aprendo anche un’ agraria.
Dal libro manufatto “Il Mulin de Cinto” di Gian Piero Del Gallo
Nelle due immagini “La stalla del mulino di Cinto” agli inizi del 1900 e nel 1980.
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