Storie marziste: 29 marzo 1945, la fucilazione dei giovani partigiani Fiocco, Stalin e Tempesta
Il 12 febbraio in località Molloni nel Comune di Cinto Caomaggiore ad opera di elementi della Brigata Nera di Portogruaro ed a seguito di diligenti indagini che da tempo venivano esperite, furono riesumati da una fossa comune i cadaveri di tale Arreghini Giuseppe, Baldo Ida e Perna Arfò Maria che erano stati alcuni mesi prima rapiti dai partigiani e quindi trucidati. [dal Resoconto mensile della questura repubblicana di Venezia, datato 3 marzo 1945 – Imelde Rosa Pellegrini, L’Altro Secolo p. 435]
Sembra che a far trovare i corpi non furono le diligenti indagini delle brigate nere ma piuttosto le consistenti piogge che imperversarono nella prima metà del febbraio del ‘45 e che provocarono vistosi allagamenti nelle campagne. L’abbondante acqua stagnante fece emergere sul terreno qualche traccia di quanto stava sotto e il proprietario del terreno decise di avvertire le autorità. Solo quando fu appurato di cosa si trattasse ci fu l’intervento delle brigate nere di Portogruaro: i xe vignui so con un camion da Porto e le ga caricae e portae via [Memoria Antonio Maccà]. Non persero l’occasione per mostrare la loro tracotanza e lo fecero interrogando con veemenza e minacce gli abitanti della zona, arrivando perfino a tormentare i bambini:
…i ghe diseva a me moglie, putela de otto anni, ma te lo sai, hai visto tutto… no no so nient…che me cognada dea classe del ‘28 ga dovuo intervenir per difenderla …ma lassela in pace cossa andè drio a ‘na putela…. i ga risposto: stia zitta lei altrimenti le tagliamo i capelli. [Memoria Antonio Maccà]
A questo punto le autorità fasciste di Portogruaro decisero di fare una azione di rappresaglia e organizzarono con l’aiuto dei tedeschi una grande retata. Il comandante Rapido venne in qualche modo a conoscenza di tali intenzioni e lo fece sapere a tutti i suoi uomini del primo distaccamento del Battaglione partigiano “Bertin”, esortandoli a nascondersi o ad abbandonare il paese. Non tutti però seguirono le sue istruzioni e alcuni di loro furono arrestati mentre si spostavano imprudentemente da soli. Fra questi anche Francesco D’Agaro, “Formica”.
Così Formica ricorda la sua cattura e la sua reclusione: “Il padre di Carolo (Fiocco) mi trattenne a casa sua per bere un bicchiere di vino. Un attimo dopo, la casa era circondata dai fascisti. Io tentai di fuggire, ma non ce la feci. Mi catturarono e mi trasferirono a Portogruaro. Mi chiusero in carcere a pane ed acqua. Più volte fui interrogato e picchiato a sangue. Guardi qua sotto, ho ancora il labbro spezzato. Non ero solo, c’erano altri con me, catturati anche loro. Ci legavano alle sedie e ci picchiavano” . [Libro Mori. La resistenza nel mondo contadino, p 157]
Oltre a D’Agaro furono arrestati Egidio Moro, Luigi Defend, Giuseppe Zaccagnino, Luciano Baldo, Oreste Pantarotto, Luciano Cornelio Zaghis, Alessandro Piccolo.
Cercarono di arrestare anche Severino Arreghini mentre si trovava negli uffici comunali a coordinare il lavoro della guardia civica. Un graduato delle brigate nere si presentò chiedendo di lui, ma Severino, intuendo il motivo di quella visita, ebbe la prontezza di spirito di dire in modo convincente che la persona cercata non era lì ma nell’ufficio del commissario prefettizio. Mentre il milite andava verso questo ufficio, Severino uscì fuori, prese la bicicletta e scappò.
Qualcuno doveva aver parlato e fornito ai fascisti tutti i nomi dei partigiani. Fra questi c’era anche Domenico Carolo (Fiocco) che però i fascisti non erano riusciti a trovare. Le brigate nere minacciarono Giovanni Carolo, il padre di Fiocco, di bruciarli la casa se Domenico non si consegnava. Giovanni a questo punto decise di contattare le autorità fasciste del paese per sapere quali rischi correva Domenico. Il commissario prefettizio Giuseppe Arreghini lo rassicurò, no’ i ghe fa nient . E così prese con sé il figlio, lo caricò nella sua bicicletta e lo portò nelle prigioni di Portogruaro. I prigionieri rimasero un mese nelle carceri portogruaresi in balia degli aguzzini delle brigate nere, prima di essere processati. Si accanirono soprattutto contro i più deboli e uno di questi era Fiocco che fu messo nelle mani di un aguzzino di Gruaro ben tristemente conosciuto.
Il processo fu fatto in modo sommario il 29 marzo, qualche giorno prima di Pasqua. Quattro partigiani del distaccamento di Settimo furono condannati alla fucilazione: Domenico Carolo (Fiocco) di 19 anni, Egidio Moro (Tempesta) di 19 anni, Luigi Defend (Stalin) di 22 anni e Giuseppe Zaccagnino (Flober) di Torre del Greco.
Accusati i primi tre di essere stati gli esecutori della condanna a morte di Ida Balbo, di Maria Perna e di Arreghini, furono condannati a morte mediante fucilazione. il 29 marzo vennero condotti dietro il muro di cinta del cimitero di Portogruaro. Avevano gli occhi bendati. Dovevano essere fucilati alla schiena, come si usa per i traditori. Flober fu graziato quando già si trovava di fronte al plotone di esecuzione. Tempesta cioè Moro, tentò di strapparsi la benda degli occhi e di girarsi per essere fucilato al petto: gesto di dignità umana che concluse la sua esistenza di uomo e di partigiano. [Libro Mori. La resistenza nel mondo contadino, p 163]
La fucilazione viene citata anche nel diario del possidente Luppis:
29 marzo- La grande sensazione del giorno è il processo contro tre minorenni, seviziatori e massacratori delle maestre Balbo e Perna, accusate di spionaggio a favore delle camice nere. Sono stati fucilati dietro il cimitero e don Cecconi, che li ha assistiti, mi dice che è stata una scena spaventosa, anche per l’accanimento degli esecutori contro i cadaveri [La diga, Ferruccio Luppis, p].
Fu un processo fatto da fassisti, non ‘na roba de legge come sintetizzò argutamente una vicina di casa di Domenico Carolo durante una sua testimonianza rilasciata all’Archivio della Memoria Cintese. Le autorità fasciste che organizzarono tale macabra messa in scena in prossimità dell’ultima pasqua di guerra e alcuni militi fascisti che torturarono i prigionieri durante gli interrogatori furono arrestati e processati dopo la liberazione.
Nei processi del dopoguerra Furio Cominotto, commissario prefettizio di Portogruaro, fu accusato di aver disposto “le indagini e le operazioni di polizia che condussero all’arresto dei partigiani Moro Egidio, Defend luigi, Carolo Domenico, Zaccagnino Giuseppe, D’Agaro Francesco, Baldo Luciano, Pantarotto Oreste, Zaghis Luciano Cornelio, Piccolo Alessandro, i quali dopo gli interrogatori subiti presso la Gnr e nell’ufficio politico del fascio repubblicano di Portogruaro, venivano deferiti ad un Tribunale militare all’uopo ivi convocato in sede straordinaria e che, il 29 marzo 1945, condannava alla pena di morte i primi quattro ed a varie pene detentive gli altri, e dando disposizioni per l’approntamento del plotone che eseguì la fucilazione di Moro Egidio, Defend Luigi, e Carolo Domenico, alla quale il Cominotto assistette”. Pietro Masarin fu accusato di aver partecipato agli interrogatori dei tre partigiani fucilati. Giuseppe Arreghini, commissario prefettizio del Comune di Cinto Caomaggiore, fu imputato per avere indotto a costituirsi alla Gnr Domenico Carolo, promettendone l’impunità. Silvio Bortolussi, commissario prefettizio di Gruaro, fu imputato di avere partecipato agli interrogatori e alle sevizie usate su Domenico Carolo. [Ugo Perissinoto-Stragi fasciste]
Giuseppe Arreghini e Silvio Bortolussi furono assolti per insufficienza di prove. Questo non significa che non erano colpevoli, l’insufficienza di prove era allora formulata quando i magistrati non istruivano il processo e, nel primo dopoguerra, la magistratura in gran parte derivata dal fascismo usava questo metodo per favorire i militi e le autorità fasciste. Furio Cominotto fu condannato a 12 anni nel novembre del 1946, pena che fu condonata per amnistia l’anno dopo. Pietro Masarin fu condannato a 10 anni nel gennaio del ‘47 ma anche per lui gli fu condonata la pena nel corso dello stesso anno per amnistia.
Il processo ai tre partigiani fu fatto ad arte nei giorni prepasquali per avere una grande partecipazione di pubblico e per screditare il più possibile la resistenza, facendo passare nell’opinione pubblica l’idea che i partigiani oltre che ad uccidere le due donne le avevano seviziate e violentate. E sembra che ci siano riusciti perché tutt’ora sentiamo narrare questa vicenda secondo i canoni processuali imposti dai fascisti.
Purtroppo non sono disponibili i documenti processuali per poter valutarli e confutarli, nemmeno si può disporre delle missive che data la peculiarità della vicenda si presume siano state scambiate fra il distaccamento partigiano di Cinto e il comando della Ippolito Nievo B. Inoltre le narrazioni tramandate su questa vicenda sono inutilizzabili perché inquinate dell’uso strumentale che ne fu fatto nel dopoguerra per fini politici.
Si può ribadire che il distaccamento partigiano di Cinto non era indipendente, faceva parte del Battaglione garibaldino “Bertin” che era inserito nella Brigata Ippolito Nievo B. Dunque ogni sua azione era gestita dai comandi di Battaglione o di Brigata, soprattutto quando si trattava di agire nei confronti di persone ritenute spie: nessuna esecuzione poteva essere fatta senza l’assenso dei due comandi. Non a caso i loro nomi si trovano nella lista “Repressione di elementi pericolosi fatte da reparti dipendenti della Brigata Ippolito Nievo B nel settembre 1944”.

Morire a 19 anni per la Risurrezione della Patria
29 – III – 1945
Rev.ssmo e carissimo sig. Parroco, ho il dolorosissimo compito di confermarle quanto già certamente conosce. Il suo parrocchiano Moro Egidio verso le 17 di oggi ha cessato di vivere. A suo conforto però posso assicurarla che è morto da buon cristiano… L’ultimo atto è stato il bacio al crocifisso e l’offerta della sua vita di espiazione de’ suoi peccati e per la Risurrezione della Patria. La morte è stata istantanea… Don Mario Ceconi, cappellano delle Carceri [Archivio Parrocchiale di Settimo]
Egidio Moro aveva solo diciannove anni. Durante l’adolescenza era emigrato a Roma e fece ritorno a Settimo a causa della guerra. La necessità di opporsi alla prevaricazioni dell’occupazione nazista lo spinse ad imbracciare le armi, a destreggiarsi nell’arte della guerriglia, rendendosi disponibile per le azione più audaci. Non si tirava mai indietro, era uno di quegli uomeni eccezionali che cita nella sua testimonianza il comandante Rapido. Non era tipo di nascondersi, di scappare, di indugiare però questo suo comportamento lo rese vulnerabile durante la fatale retata nazifascista. Con l’uccisione delle due donne centrava ben poco, almeno da quanto sembra trapelare dalle flebili testimonianze giunte fino a noi. L’uccisione dei tre partigiani fu solo un atto di rappresaglia, come si deduce anche da un documento del 1950 presente nell’Archivio Comunale di Cinto Caomaggiore.
La salma di Egidio Moro fu esumata dal cimitero di Portogruaro e trasportata nel cimitero di Cinto il 1 giugno del 1945 su iniziativa del CLN di Cinto Caomaggiore, venne delegato l’ex partigiano Ferdinando Lazzarini per il disbrigo delle pratiche. Il funerale fu fatto nella chiesa di Settimo il 7 giugno 1945 con grande concorso di pubblico come annota nel suo diario Don Ernesto Linguanotto.
Dal Libro “Patate Americane al chiar di Luna: Guerra e lotta di Liberazione a Cinto Caomaggiore”

La nuova targa inserita dall’ANPI nel cimitero di Portogruaro il 29 marzo 2025 in occasione dell’ottantesimo anniversario della fucilazione
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