di Gian Piero Del Gallo
Le osterie, ribattezzate poi bar perché sonava “mejo e più fin”, hanno rivestito un ruolo primario nella vita del paese di Settimo; luoghi di socializzazione, “de ciacoe” ma anche di grandi baruffe, tanto che non era considerata festa se non succedeva qualche bella lite. A favorire l’alterco era quasi sempre la “morra”, più di qualsiasi altro gioco, tanto che fu proibita dalle autorità nazionali per evitare liti che qualche volta finivano, quando andava bene, con nasi e denti rotti. Ma era anche il luogo dove si facevano gli affari, si concludeva una vendita, si trovava rifugio dalle fatiche del giorno, davanti ad un “ombra de quel bon” che poi si moltiplicava ed era sempre “l’ultimo bicer quel che te ciavava”. Per tirar a la morra, singola od a coppie, nelle osterie di Settimo arrivavano anche dai paesi vicini per confrontarsi con i campioni locali più rinomati; in palio sempre abbondanti portate di vino, grappa anche per il segnapunti che doveva stare molto attento ad assegnarlo se non voleva incorrere nelle ire dei contendenti. Ed il conto andava su fino a raggiungere cifre consistenti per l’epoca perché, oltre all’ombra, tra una partita di morra e l’altra, “se magnava ’na feta de muset ” o “’na sardea soto sal” che invogliava a bere ancora. Alla fine il conto ai perdenti e “chi perde paga e non cojona”, ma loro rispondevano “una volta core el can, un’altra el lievro”, a significare che la prossima volta sarebbe andata diversamente. Ma “in scarsela”non c’era sempre, il denaro per onorare il conto, ed allora si ricorreva al credito di fiducia che l’oste però segnava sul famoso libro e provvedeva a “disnotar” quando lo si saldava. Memorabile il debito di un uomo, del quale per ovvie ragioni si omette il nome, sotto il cui nome il buon Pedrinelli scrisse “debito saldato in Purgatorio”. L’uomo in questione infatti era deceduto senza pagare il conto. Oltre alla morra, sui tavoli di legno si giocava a carte: tressette, briscola, bestia e scarabocio mentre dal Giandro su un “canton ardea un scaras longo, mezo infilà nella boca de la stua de teracota, l’altro mezo pusà a na carega e se lo sburtava drento man man chel brusava”. Neanche un pel di fumo perché sotto la porta entrava la “giata che l’ha magnà el pes”. Ecco lo gavemo ciamà, l’è rivà Bino Suja, tirava sassi come missili e la “britola” sempre pronta a colpire. Poco più lontan Piero Moretton “Palanca” chel sigava sempre viva l’Austria, non aveva fatto il militare ma portava sempre un “capel da alpin de la Giulia”. Altri tempi scanditi proprio dalla presenza di personaggi rimasti nell’archivio delle menti. Una “strombetada” avvisava dell’arrivo di Ceci del gelato, “do balute par un vovo”, immaginarsi quanti furti nelle cove delle galline. “Le femene de fameia, co le volea magnar de magro, ricorda la Maria, le faceva la spesa da la Cia del pes o dae so’ sorelle che le vigniva da Concordia e soto el portego del bar se dividevano il pes da vendar. Tante sardee, le costava poc e le rendea tant”. Di tutte le osterie ne sono rimaste solo due, il bar di Aldo Anese oggi trasformato in ristorante “ Morris”, e l’Osteria Alla Scala che non ha subito variazioni ed il figlio Tiziano ha proseguito nell’opera del padre “Giandro” Giovanni Battiston e prima ancora dal sior Antonio, le altre hanno chiuso o sono state demolite; quella di Filiberto Gobat, l’altra di Giovanni Sigalot, l’altra ancora dei fratelli Battiston in piazza, e quella della”Richetta” in parte alla sala da ballo. Ma tutte le osterie avevano i campi di bocce, anche se quello che andava per la maggiore era il bar di Maria e Aldo Anese su la strada alta, viale Pordenone. Qui, oltre alle bocce, regnava il “cavabaìn” che consisteva nel colpire con un tiro al volo il pallino mezzo coperto da una boccia. Ed erano veri e propri incontri con tanto di tifosi per i più bravi del paese che si confrontavano con qualcuno “de Cinto o de Pramaior”che si azzardava a mettere in dubbio la superiorità locale. “Per zogar a le bale più di qualcuno arrivava appena magnà per ciaparse el posto” ricorda la Maria Basso. Ma Aldo Anese era rinomato non solo per la diligenza che aveva nel mantenere i campi di bocce che “ tirava a fin” ma anche per la “Sagra delle Rose” di fine maggio, con un “casin de gente che la vigniva da fora”. “S’andava a Porto a comperare alcuni blocchi di ghiaccio, ricorda la Maria, li mettevamo nel “mastel” per tenere le bibite in fresca. Canti e suoni che rendevano meno grama la vita, anche se ci stavamo avviando a quella fase di evoluzione che consentiva qualche lira in tasca, avevamo appena superato gli anni cinquanta”. Erano arrivati gli anni della grande emigrazione che spopolò Settimo, da dove partirono principalmente verso la Svizzera, la Francia, la Germania ed il Belgio, ma anche oltre oceano, centinaia di persone, intere famiglie. Dei 1305 abitanti del 1947, si passò nel 1969 a 905; l’intero comune soffrì e dai 3804 abitanti del 1947, Cinto insieme a Settimo sempre nel 1969, raggiunse appena le 2708 unità. “Tanta gente all’estero che si teneva in contatto con i loro cari con il telefono, ricorda la Maria, chiamavano prima per lasciarci il tempo di avvisare la madre o la moglie. Scene a volte commoventi e sono stata felice per loro quando, nel 1955, siamo riusciti ad avere la cabina telefonica che lasciava più intimità. Mi ricordo che si commosse anche don Duilio quando venne in bar per la benedizione”.

Dal libro “La Comunità di Settimo”, edito nel 2006 dal Comune di Cinto Caomaggiore
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